La dichiarazione dei diritti di Internet, gli articoli scientifici e lo sviluppo

Ultimo aggiornamento: 13-04-2017

Dopo un anno di lavoro la Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet ha prodotto la Dichiarazione dei Diritti in Internet:

E’ la prima volta che in Italia si istituisce in sede parlamentare una Commissione di studio su questi temi. L’idea nasce dalla consapevolezza che considerare Internet uno dei vari media è riduttivo e improprio. Internet è molto di più: è una dimensione essenziale per il presente e il futuro delle nostre società; una dimensione diventata in poco tempo un immenso spazio di libertà, di crescita, di scambio e di conoscenza.

Leggendo il documento si nota come la Commissione abbia riconosciuto il fatto che con Internet sono cambiati i mezzi per produrre e utilizzare la conoscenza e che Internet è diventato uno spazio economico che ha velocizzato l’innovazione.

Come è oggi

Con l’avvento dei computer prima e di Internet poi, sono nate le nuove multinazionali del hi-tech che hanno scalzato come grandezza e ricchezza la vecchie multinazionali dell’industria. Queste nuove multinazionali: IBM, Microsoft, Apple, Google, Amazon, ecc.. basano la loro potenza sulla conoscenza e sui brevetti che poi sono diventati software e hardware.

Contro questa concezione è nato, nelle università americane a partire dagli anni 70, il filone dell’open source: si pensi a Richard Stallman e al progetto GNU. Il cui culmine si è raggiunto, per me, quando nel 2013 Aaron Swartz  (creatore dei Creative Commons) ha regalato al mondo, tramite torrent, 4 milioni di documenti proveniente da JSTOR (“JSTOR is a digital library of academic journals, books, and primary sources.”). Poco dopo quest’azione, Swatz si è suicidato poichè rischiava fino a 50 anni di galera e a una multa di 4 milioni di dollari.
Swatz si è mosso secondo il principio della conoscenza deve essere libera e che ciò porti allo sviluppo della democrazia e al benessere economico.
Però si è visto che non tutti la pensano come lui.

Chiunque ha fatto la tesi in materie scientifiche o comunque ha provato a trovare degli articoli scientifici, sa che quest’ultimi sono scaricabili da biblioteche virtuali a pagamento, tipo JSTOR  (si vedano i motori di ricerca appositi realizzati da  Google e Microsoft). Fortunatamente le università hanno gli abbonamenti con alcune di queste e ciò permette agli studenti di scaricare articoli e libri, se connessi tramite la loro rete interna o tramite un proxy. Però a volte alcuni articoli scientifici sono disponibili su biblioteche per le quali non c’è un abbonamento e dove un singolo articolo costa in media circa 20 dollari, se non di più.
Può anche capitare di vivere situazioni assurde, in cui si vuole scaricare un articolo realizzato da un’università italiana, pubblicato su un sito dove la propria università non è abbonata, e in più, non si hanno i contatti giusti per procurarselo.

La Dichiarazione e come può essere il domani

L’articolo 3 della dichiarazione  parla del diritto alla conoscenza e all’educazione in rete e si può leggere che:

Le istituzioni pubbliche assicurano la creazione, l’uso e la diffusione della conoscenza in rete intesa come bene accessibile e fruibile da parte di ogni soggetto.

In più nell’articolo 14 vi è scritto che:

“L’accesso e il riutilizzo dei dati generati e detenuti dal settore pubblico debbono essere garantiti.”

Questi due commi suggeriscono come risolvere il problema di cui vi ho parlato prima: se un dipartimento di un’università italiana produce un articolo scientifico questo deve essere liberamente accessibile da tutte le altre università, anzi a tutti i cittadini (ma ora non voglio esagerare).

L’articolo 14, è stato scritto pensando ai BIG DATA (penso), però può tranquillamente interessare i prodotti delle nostre università non coperti da brevetti.
In più, tornando al concetto di Internet come volante dell’innovazione, si potrebbe pensare di garantire l’accesso agli articoli scientifici delle università pubbliche, realizzati in Italia ma anche in tutta Europa, a tutte le aziende (medio-piccole) che pagano le tasse in Italia, che quindi  contribuiscono direttamente alla sussistenza del nostro sistema universitario. In questo modo si potrebbe incentivare la nascita di nuove aziende tecnologiche e lo sviluppo di nuove tecnologie.

A questa conclusione era arrivato anche Claudio Giunta già nel 2013, che intervistando Juan Carlos De Martin parla di #OpenAccess e degli abbonamenti (costosi) alle riviste scientifiche (cito da  Internazione):

E dove sta l’assurdità? Sta 1) nel fatto che queste riviste pubblicano articoli scritti da ricercatori universitari i cui stipendi vengono pagati soprattutto da istituzioni pubbliche (cioè dai contribuenti); 2) nel fatto che gli editori che pubblicano queste riviste non pagano gli articoli che vengono pubblicati; e 3) nel fatto che le stesse istituzioni pubbliche che pagano gli stipendi e la ricerca dei loro impiegati comprano poi a carissimo prezzo quelle riviste.

Si dovrebbero mettere online tutte le ricerche e le tesine realizzate durante i corsi, che riguardano argomenti innovativi e non sperare di trovare qualcosa pubblicato dai ragazzi su SlideShare o GitHub; in sostanza creare una sorta di AlmaLaurea 2.0.
Un’infrastruttura del genere potrebbe permettere la nascita di tecnologie innovative o l’utilizzo di tecnologie allo stato dell’arte, creando così posti di lavoro e nuove imprese, le così dette start-up.

Citando ancora l’articolo di Giunta:

I vantaggi sono evidenti: grazie all’open access i risultati della ricerca possono essere letti, studiati, usati da molte più persone. Questo porta, da un lato, la “repubblica della scienza” a funzionare meglio, perché non ci sono più ricercatori esclusi dal dibattito solo perché le loro istituzioni non sono abbastanza ricche da abbonarsi a tutte le riviste scientifiche (che è il caso non solo delle università del terzo mondo ma anche di molte università europee e americane).

(ci potrebbe essere) un impatto economico, culturale e civile non facile da misurare, ma certamente alto. Supponiamo che l’azienda x voglia sapere se in Italia ci sono università che stanno lavorando sul polimero Y o sulla molecola Z: l’open access consentirebbe di rispondere in pochi secondi, facendo una semplice ricerca online. Questi effetti positivi sulla scienza e sulla società nel suo complesso spiegano perché molti finanziatori della ricerca, tra cui la Commissione europea e un numero crescente di governi nazionali (tra cui gli Stati Uniti e il Regno Unito), abbiano già imposto l’open access ai risultati della ricerca che finanziano.

Un altro  esempio potrebbe essere questo: è stato pubblicato  un articolo scientifico in cui si introduce di una nuova tecnica di Intelligenza Artificiale che permette di analizzare i dati come testi o immagini. Un’azienda o un singolo non vuol aspettare che una start-up d’oltre oceano crei un prodotto che permetta l’utilizzo di questa tecnologia (si vedano ad esempio i vari servizi di IA as a Service di Clarifai, Google Cloud, Microsoft Azure, ecc…), anzi vuole essere lei a crearlo ed essere lei il “fornitore” per altre aziende. L’accesso all’articolo (e spesso oltre al singolo articolo serve leggere anche tutti quelli collegato ad esso) permetterebbe ciò.

Aggiornamenti

06/04/2017
Ho aggiornato l’articolo dopo aver trovato il pezzo di Giuta del 2013 su Internazionale.

24/02/2016
In seguito alla notizia della ricercatrice Kazaka che ha creato sci-hub, continuando sull’onda di Swartz, è  uscito fuori che già dal 2014, l’UE ha imposto che i paper scritti con i soldi dei bandi di Horizon2020 dovranno essere pubblici all’interno dell’UE. Se questo concetto fosse applicato per tutte le ricerche fatte, quotidianamente, delle università pubbliche europee, non sarebbe affatto male!

07/06/2016
L’Europa prova a candidarsi come paradiso dell’Open Access alle pubblicazioni scientifiche entro il 2020, e ciò significa che le pubblicazioni scientifiche sui risultati della ricerca pubblica e pubblico-privata devono essere liberamente accessibili a tutti (approfondisci)

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